Lelio Cantoni
Padre dell’emancipazione
Lelio (Hillel Baruch Shalom) Cantoni è senza dubbio una delle figure più note dell’Ebraismo italiano d’Ottocento. Il suo nome è indissolubilmente legato alla cosiddetta seconda emancipazione; una prima concessione dei diritti civili risaliva ad epoca napoleonica, ma fu solo nel 1848 con re Carlo Alberto che gli ebrei del regno sabaudo ottennero la definitiva parificazione, poi estesa nel 1861 al resto del Regno d’Italia. Le sue vicende biografiche sono in larga misura ignote, per il periodo antecedente il suo ingresso al Collegio Rabbinico di Padova. Lo sappiamo, infatti, originario di Gazzuolo, nel Ducato di Mantova. Nasce tra il 19 gennaio 1801 e il 18 gennaio 1802, se si presta fede all’elogio funebre pubblicato sull’Educatore Israelita, nel quale si afferma che alla sua morte (18 gennaio 1857) Cantoni aveva 55 anni. La sua giovinezza è avvolta nell’oscurità. Nel 1829 è ammesso al Collegio Rabbinico di Padova, appena istituito. Cantoni è tra i primi iscritti e, a quanto pare, l’unico studente che non fruisca di una borsa di studio. Prima di esservi ammesso Cantoni era vice-rabbino di Mantova.
Il 25 settembre 1833 fu chiamato a guidare le Università Israelitiche del Piemonte, ruolo che ricoprì fino alla sua morte. In qualità di Rabbino Maggiore delle Università Israelitiche del Piemonte, Cantoni fu il principale promotore della causa per l’emancipazione ebraica. L’impegno che Cantoni profuse nella causa di parificazione giuridica degli ebrei sabaudi fu costante; essenziale fu il rapporto di amicizia e stima che lo legò a Roberto d’Azeglio, uno dei massimi fautori dell’emancipazione delle minoranze ebraica e valdese nel Regno sabaudo, nella capillare opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica alla causa. Nel 1845 fondò a Torino un Comitato che si occupasse di promuovere l’emancipazione, tramite anche la diffusione di opuscoli come quello di Massimo d’Azeglio, fratello di Roberto, dal titolo Dell’emancipazione civile degl’Israeliti, pubblicato da Le Monnier nel 1848; o quelli di G. Luigi Maffoni, Origine delle interdizioni civili israelitiche e dannosi effetti dalle medesime derivanti e di Luigi Vigna e Vincenzo Aliberti, Della condizione attuale degli Ebrei in Piemonte, citati in una lettera del 14 febbraio 1848 alla comunità di Saluzzo. Il 22 marzo 1848, giorno precedente la dichiarazione delle ostilità contro l’impero austriaco, Cantoni esortava i correligionari a contribuire allo sforzo bellico, definito «il preludio del nostro riscatto». Impegno nella lotta per l’indipendenza e per l’emancipazione procedettero, dunque, parallelamente per gli ebrei piemontesi. Il 27 marzo 1848 Cantoni poteva scrivere alle comunità che l’ora del riscatto era vicina, preannunciando così lo storico traguardo. L’emancipazione fu proclamata, infatti, appena due giorni dopo, il 29 marzo 1848. Essa sanciva il conseguimento dei diritti civili per tutti gli ebrei del Regno, ma non dei diritti politici, che furono concessi solo il 19 giugno del medesimo anno.
A Cantoni si deve, peraltro, un progetto di riforma amministrativa delle comunità del regno. Ancor prima dell’emancipazione, nel 1845 la Segreteria di Stato Interni incaricò, per il tramite dell’Intendente Generale, la Commissione Speciale Israelitica del Piemonte di compilare un nuovo Regolamento Economico Amministrativo per le Università Israelitiche. L’ordinamento allora vigente risaliva ad epoca napoleonica e prevedeva un’organizzazione in Dipartimenti, retti da Concistori di cui facevano parte un Gran Rabbino, un Rabbino e 3 membri laici (maggiori informazioni sono reperibili sul sito Percorsi negli archivi ebraici del Piemonte). La Commissione nominò, dunque, una delegazione presieduta da Cantoni, come testimoniato da una lettera della Commissione Speciale Israelitica del Piemonte datata 15 giugno 1845; la delegazione aveva l’incarico di raccogliere i dati necessari dalle singole Università al fine di redigere successivamente una bozza di regolamento da sottoporre al governo. A tale scopo la delegazione inviò dei moduli allegati alla lettera circolare del 22 giugno 1845. Saluzzo non si distinse per solerzia, fatto che indusse Cantoni ad inviare all’Amministrazione una lettera di sollecito dai toni curiosamente minatori l’8 agosto 1845. La comunità inviò, infine, i dati richiesti con una una lettera del 18 agosto successivo. Tuttavia, si dovette attendere il 4 luglio 1857 perché venisse promulgata la Legge n. 2325 (detta “Rattazzi” dal Ministro dell’Interno Urbano Rattazzi che presentò il Progetto di Legge in Parlamento), accompagnata da un regolamento «per l’amministrazione e contabilità delle università israelitiche» (n. 2326). Tale legge costituisce il punto d’arrivo dei fervidi dibattiti che avevano animato le Università Israelitiche piemontesi e che avevano trovato un’espressione unitaria nel Congresso di Vercelli (1856), in cui uno dei punti più discussi era stata la necessità di superare la distinzione tra Università Israelitiche “Maggiori” e “Minori”, come sancito dalle previgenti leggi napoleoniche. Essa costituisce, tuttavia, anche la sconfitta del progetto di centralizzazione sostenuto da Cantoni, che prevedeva l’unione di tutte le comunità del regno sotto la direzione di un Concistoro centrale con sede a Torino; ciò si dovette all’opposizione di alcune Università Maggiori, che avrebbero perduto molto in prestigio ed autonomia. Il principio autonomistico ne uscì, dunque, vittorioso.
Nella corrispondenza di Cantoni troviamo tracce di un fatto di cronaca che al tempo ebbe straordinaria risonanza nella stampa internazionale: l’accusa di omicidio rituale rivolta agli ebrei di Damasco in seguito alla scomparsa del frate cappuccino Tommaso di Calangianus, avvenuta il 5 febbraio del 1840. L’accusa del sangue è molto antica e costituisce una delle più insidiose declinazioni dell’antigiudaismo. Al fine di smentire l’antica calunnia Cantoni scrisse un memoriale al Re, in seguito al quale la Gazzetta piemontese pubblicò un suo articolo, di cui conserviamo una copia manoscritta sfortunatamente incompleta. Alle sue pagine il Rabbino Maggiore affida una fervida, ma lucida confutazione dell’accusa del sangue sulla base delle fonti bibliche.
Un ambito in cui il Rabbino Maggiore si distinse per il suo talento nel mediare tra conservazione ed innovazione fu il culto. Egli introdusse in alcuni casi modifiche alle pratiche vigenti, pur vigilando e profondendo ogni energia, perché non si deviasse dalla retta applicazione della Legge. In una lettera del 15 ottobre 1834 Cantoni esortava l’Amministrazione di Saluzzo a prendere provvedimenti contro la consuetudine di lasciare alle donne libero accesso alla sezione del tempio riservata agli uomini la sera precedente il giorno di Śimchat Torà, come uso privo di fondamento nelle fonti rabbiniche. L’appello al Consiglio e al Vice-Rabbino Foà, perché mantenessero il decoro della religione dei padri e dell’Università saluzzese, sembrò sortire l’effetto sperato, come attesta una seconda lettera inviata da Cantoni circa un anno dopo, il 22 settembre 1835, in cui Cantoni precisò che il divieto era reso permanente e valido sia di giorno sia di notte.
Tra le novità introdotte si segnala la pratica del גילוח בחולו של מועד (Gillúach becholó shel mo‘éd), ovvero l’uso di radersi nei giorni semifestivi. In un manifesto inviato il 5 aprile 1843, il Rabbino Maggiore annunciava a tutte le comunità sotto la sua guida la propria decisione, che assumeva valore legale avente forza di halakà, ovvero norma rituale vincolante, e di cui argomentava diffusamente le ragioni. Ciò che emerge da queste argomentazioni è la sensibilità di qualsiasi mutamento si intendesse introdurre nel culto. Cantoni profuse, infatti, notevoli energie nel tentativo di presentare come perfettamente legale ed in accordo con la tradizione una modifica che chiaramente ad essa non apparteneva. Il concetto stesso di riforma del culto, qualunque declinazione esso assumesse, era percepito come un indebolimento delle fondamenta su cui si reggeva l’Ebraismo, l’ineludibile preludio ad uno scisma intestino cui si temeva di non poter sopravvivere. D’altronde, il trauma della Riforma era ancora troppo recente, la ferita inferta e le fratture da essa prodotte in seno all’Ebraismo europeo perduravano nell’Italia disunita di metà Ottocento. Non è, dunque, un caso che nell’elogio funebre di Cantoni pubblicato sull’Educatore Israelita, gli editori del periodico scrivessero: «Propose infatti, e fece adottare dal rabbinato Piemontese alcune modificazioni ad antiche usanze di culto, le quali benché non possano portare il nome di riforme, perché dedotte dalla più stretta legalità, erano però assai importanti per le conseguenze e per l’iniziativa» (enfasi aggiunta).
Lelio Cantoni morì prematuramente il 18 gennaio 1857. Lasciava un’eredità complessa. Se il sogno di vedere compiuta l’emancipazione degli ebrei del regno era divenuto realtà, altrettanto non può dirsi del suo progetto per un nuovo ordinamento delle università israelitiche. Certo, in quel medesimo 1857 il cerchio sembra chiudersi perfettamente: è presentato e approvato il disegno di legge del ministro Urbano Rattazzi, che regolerà la vita amministrativa delle comunità fino al 1930; tuttavia, il progetto di centralizzazione ideato dal Rabbino Maggiore non prevalse a tutto vantaggio del principio autonomistico. Infine, l’operato del Rabbino di Gazzuolo in ambito rituale fu informato ad un principio che potremmo definire di dinamica conservazione, o moderata riforma. Queste tre anime del mandato di Cantoni, emancipazione, principio centralistico nell’amministrazione delle comunità e tendenze moderatamente riformistiche nel culto, resteranno fondamentali nei dibattiti che animarono il decennio successivo, particolarmente nella forma che assunsero nei Congressi di Ferrara e Firenze.