Marco Mortara
Il progetto per un Concilio Rabbinico
Figura la cui importanza per la storia dell’Ebraismo italiano d’Ottocento non può essere sottostimata, Marco Mortara nacque a Viadana, in provincia di Mantova, il 7 maggio 1815. Fu allievo di Samuel David Luzzatto (SHaDaL) al Collegio Rabbinico di Padova, dove nel 1836 conseguì la semika accedendo al grado di ḥakam. Nel 1842 divenne rabbino della comunità di Mantova, di cui fu guida spirituale fino alla morte, il 2 febbraio 1894. Nel 1857 gli viene conferito il titolo di Rabbino Maggiore; nel 1873 quello di Cavaliere del Regno. Fu uno scrittore prolifico che raggiunse il riconoscimento nazionale ed internazionale a partire dagli anni Cinquanta, grazie ai suoi interventi nei dibattiti che scuotevano l’Ebraismo italiano sulla direzione che esso avrebbe dovuto prendere e grazie alla ricca collezione di manoscritti della biblioteca della comunità ebraica di Mantova, che attirava sempre più filologi da tutta Europa.
Mortara fu uno dei promotori più attivi della necessità di una riforma del culto, seppur moderata, per discutere la quale egli sostenne l’indizione di un sinodo rabbinico, in cui i rabbini italiani potessero confrontarsi sulla questione e giungere ad un’intesa sulla via da percorrere. Tale sinodo fu oggetto di discussione sia al Congresso di Ferrara (decimo punto del programma) sia al Congresso di Firenze (art. IX tra le “Proposte non comprese nel programma”). Tuttavia, nonostante il voto contrario di alcuni delegati, tra cui Davide Terracini, a Ferrara fu deciso di non promuovere tale risoluzione per paura che un progetto simile producesse derive innovatrici in direzione di una radicale modernizzazione; i contenuti ne sarebbero risultati irreversibilmente diluiti ed indeboliti i pilastri della fede avita. Ciò che più si temeva, dunque, era un nuovo scisma in seno all’Ebraismo, come era avvenuto in Germania all’inizio del secolo in occasione della Riforma.
Veniamo a conoscenza della presenza di Mortara al congresso da una lettera del 14 maggio 1863, che il dott. Mosè (o Moisé) Leone Finzi, delegato dell’Università Israelitica di Mondovì, invia al presidente del Consiglio di Amministrazione di questa comunità per render conto dell’avanzamento dei lavori del Congresso. Vi si legge:
[…] L’avverto che ufficiosamente giunsero il Rabbino Mortara e il Dr Benvenist[ ] di Padova, e questi per influenzare a favore del Collegio Rabbinico di Padova. […]
Del progetto di Mortara per un sinodo rabbinico l’Archivio Terracini conserva un suo opuscolo del 1866 dal titolo Della convenienza e competenza di un Congresso Rabbinico per M. Mortara rabbino maggiore, in cui il rabbino mantovano espone le proprie ragioni a favore di una riforma del culto esteriore; per decidere dei contenuti di tale riforma egli invita i suoi colleghi a riunirsi, a «discutere e votare» per riportare il culto ebraico alla sua purezza e semplicità originarie («dei tempi dei Soferim e della Mishnà»). Tale ripristino avrebbe dovuto fondarsi sulla riscoperta dell’autentico spirito che aveva animato i legislatori della Mishnà e del Talmud. Se essi, infatti, avessero ritenuto la Legge orale fissa ed inalterabile, si sarebbero forse disturbati a riportare per ogni singolo caso i pareri discordi dei Dottori della Legge? A quale scopo far ciò, se non per mantenere viva quella Legge che avrebbe dovuto regolare la vita ebraica per i secoli a venire, dunque, adattarsi ad ogni tipo di situazione e mutamento sociale? Non è un caso che in questo opuscolo Mortara non parli mai di riforma del culto; questa scelta linguistica scaturisce da un lato dalla connotazione negativa attribuita al termine in conseguenza del profondo trauma che aveva scosso l’Ebraismo europeo all’alba del XIX sec. con lo scisma del movimento riformato; dall’altro dalla volontà di annullare la polarità creatasi tra riformatori e conservatori richiamandosi ad un’ideale semplicità primigenia che avrebbe dovuto – almeno nelle intenzioni di Mortara – riportare il dibattito sotto l’egida della “Legge tradizionale” e, dunque, comporre ogni dissidio. La questione della suscettibilità del culto di modifiche attive sostanziali era tornata in primo piano negli anni che intercorsero tra i due Congressi di Ferrara e Firenze; nel 1865, infatti, il rabbino di Torino Samuele Olper aveva unilateralmente deciso di applicare alcune modifiche alle norme concernenti il lutto. Le discussioni che ne erano seguite trovarono voce sulle pagine del Corriere Israelitico e dell’Educatore Israelita. L’opuscolo di Mortara costituisce la sua risposta e la sua presa di posizione all’interno del dibattito.
Tuttavia, il progetto del rabbino mantovano rimase tale. Al Congresso di Firenze Davide Terracini propose nuovamente la necessità di un sinodo rabbinico (vedi l’art. IX delle Deliberazioni); i delegati presero la risoluzione di rimettere la questione ai singoli rabbini che, d’accordo con le rispettive comunità, curassero di redigere un programma. Ciononostante, il sinodo non vide mai la luce. Ciò non comportò, tuttavia, la fine dei dibattiti sul culto e, più in generale, sulle sfide poste dall’incontro/scontro con la modernità e dalle nuove libertà. Essi perdurarono e lasciarono traccia di sé nella corrispondenza di numerosi rabbini. Una di queste tracce è costituita da uno scambio di lettere tra Mortara, Marco Momigliano e Salomon Jona. Nel maggio 1880, infatti, si tennero le elezioni politiche, che per una circostanza fortuita cadevano nel primo giorno di Shavu‘ot. Ciò costituiva un punto di attrito tra libertà di culto ed esercizio dei diritti civili e politici, poiché, votando, gli ebrei italiani avrebbero trasgredito un precetto religioso, mentre osservando quest’ultimo avrebbero rinunciato al «primo atto di cittadinanza attiva, di sovranità nazionale coll’elezione del deputato legislativo», una conquista per la quale a lungo si erano battuti. In risposta ad una circolare del 4 maggio 1880 inviata da Salomon Jona, Mortara approvava la proposta del Rabbino Maggiore di Modena di derogare al precetto che vietava di scrivere durante i giorni di festa e la dichiarava perfettamente in linea con i principi della religione ebraica. Benché Mortara non amasse essere annoverato tra i riformatori, la distanza che lo separava dal fronte conservatore, qui rappresentato da Momigliano, emerge con chiarezza.