Davide Terracini
Il progetto per un Concilio Rabbinico
(Marco) Davide (Mordekai) Terracini è senza dubbio una figura di rilievo all’interno dei dibattiti che scossero l’Ebraismo italiano durante l’Ottocento. Nacque ad Asti nel 1811. Divenne rabbino di Acqui nel 1832, all’età di 22 anni. Nel 1858, dopo quasi 25 anni di ministero esercitato nella suddetta comunità, passò ad Asti, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1892. Al pari di Marco Mortara e ad Abramo Mainster, Terracini sostenne con forza la necessità di un Concilio rabbinico, che si riunisse per discutere di un’eventuale riforma del culto. Si fece promotore di queste idee ad entrambi i Congressi di Ferrara e Firenze ed in entrambe queste occasioni trovò una fiera opposizione. Possiamo seguire da vicino la vicenda grazie al copialettere del Rabbino Maggiore di Asti, conservato dall’Archivio Terracini. Numerose sono le minute di lettere che egli scrive ai propri colleghi al riguardo. Le ragioni che si celavano dietro l’instancabile impegno di Terracini a favore di una riforma del culto avevano origine nella profonda crisi attraversata in quegli anni dall’Ebraismo italiano.
In seguito all’emancipazione, ovvero la concessione dei diritti civili e politici a tutti gli ebrei del Regno, proclamata in Piemonte nel 1848, poi estesa progressivamente al resto d’Italia dal 1861, si era insinuata tra le comunità una piaga di particolare virulenza: l’«indifferentismo religioso». Con tale espressione Terracini si riferiva all’abbandono sempre più frequente della religione dei padri da parte dei laici. In una lettera incompleta presumibilmente del 1865 Terracini parla del «delirio d’assimilazione straniera» che ha colto i suoi correligionari, i quali conducono le proprie vite nell’inosservanza della Legge mosaica. L’emancipazione civile non avrebbe dovuto tradursi nella perdita della propria «fisionomia Israelitica». È chiaro da queste lettere che per il rabbino astigiano l’identità ebraica è irriducibilmente legata all’osservanza dei precetti religiosi, che soli distinguono gli ebrei dai non-ebrei.
Allo scopo di invertire tale tendenza, Terracini riteneva che si dovesse alleggerire il complesso edificio normativo del culto per ricondurlo in linea con le esigenze del mutato contesto sociale. È su questo punto che sorsero profondi contrasti mai completamente sanati in seno al Rabbinato italiano. In seguito al rifiuto del Congresso di Ferrara di deliberare in proposito, la questione rimase in uno stato di sospensione, dal quale fu rianimata nell’aprile 1865. Il Rabbino Maggiore delle Università Israelitiche del Piemonte, Samuele Salomone Olper, decise unilateralmente di ridurre i giorni di lutto da sette (shiv‘à) a tre. Ne scaturì un autentico scandalo che scosse l’Ebraismo italiano alle fondamenta. Terracini, che peraltro non aveva grande stima di Olper, si oppose strenuamente alla sua decisione. In una lettera destinata ai direttori dell’Educatore Israelita egli criticava aspramente ogni tipo di innovazione che alterasse precetti talmudici e che si fondasse sulla sola autorità individuale. Terracini, infatti, non intendeva modificare il nucleo biblico e talmudico della Legge (Torà scritta e Torà orale); piuttosto, voleva eliminare le aggiunte posteriori di epoca medievale. Non di riforma, dunque, possiamo parlare, ma di restaurazione, di un ritorno alla semplicità originaria della Legge. Tale opera restauratrice doveva, tuttavia, scaturire da un Concilio, in cui i rabbini riuniti avrebbero dovuto discutere e concordare un piano d’azione. Questo era l’obiettivo principale della riunione, come delineato in una lettera del 24 settembre 1865 al Rabbino Maggiore di Vercelli, Giuseppe Raffael Levi. Il Concilio doveva, inoltre, condannare l’inosservanza religiosa dei laici, descritta più in dettaglio a Giuseppe R. Levi il 5 novembre 1866, e definire le proprie competenze specifiche rispetto a quelle dei singoli rabbini. Quest’ultimo punto richiama specularmente il tentativo, non a caso fallito, da parte laica di creare un organo rappresentativo centrale delle comunità in seno al Congresso di Ferrara.
Il progetto, tuttavia, non poteva aver successo senza l’attivo concorso delle amministrazioni comunitarie, come Terracini riferisce a Giuseppe Levi nel dicembre 1865. Non doveva essere ripetuto l’errore compiuto a Ferrara, dove l’assemblea congressuale aveva anteposto gli interessi civili a quelli religiosi. Queste considerazioni di Terracini mettono in luce le disfunzionalità presenti nel rapporto tra laici e rabbini in Italia. La dipendenza sistemica dei rabbini italiani dalle rispettive comunità per il proprio sostentamento riduceva sensibilmente l’autorità rabbinica sui fedeli e sottometteva ogni processo decisionale al vaglio delle amministrazioni laiche. La crescente indifferenza religiosa, cui abbiamo accennato rendeva, peraltro, quantomeno utopistico sperare che le amministrazioni si facessero carico di un progetto che non competeva loro e che sentivano lontano dai propri interessi.
Tuttavia, al Congresso di Firenze la proposta di Terracini fu accolta, non senza opposizione, soprattutto da parte dei rabbini livornesi guidati da Elia Benamozegh. Un altro illustre oppositore fu Lelio Della Torre, docente al Collegio Rabbinico di Padova e amico di Terracini, fatto che non mancò di creare tensioni tra i due rabbini, come testimoniato da una lettera del 19 giugno 1867. Al Congresso fu deciso, dunque, di demandare al Rabbinato italiano la stesura di un programma per il futuro Concilio rabbinico, che avrebbe poi dovuto essere inviato a tutte le comunità dalla Commissione esecutrice del Congresso. I contrasti non furono sopiti, come leggiamo nella lettera del 21 maggio 1867 a Leone Ravenna. Gli oppositori di Terracini, infatti, diffondevano «voci maliziose» intorno al Concilio, alimentando i timori di un eventuale scisma, che ne sarebbe derivato, come avvenuto in Germania pochi decenni prima con l’Ebraismo riformato. Peraltro, l’indizione del Concilio era messa a rischio da un’inesattezza nella formulazione della deliberazione, come Terracini sottolinea a David Almagià in una lettera del 28 maggio 1867. Nella deliberazione si affermava che il programma doveva essere concordato tra tutti i rabbini, dunque anche con coloro che vi si opponevano categoricamente, rendendone di fatto impossibile la stesura. Per tale ragione il rabbino astigiano inviò un programma preliminare ad una cerchia più ristretta di rabbini che sapeva già ben disposti verso l’iniziativa, tra i quali Giuseppe R. Levi, cui scrisse il 3 giugno 1867, Marco Mortara, Abramo Mainster e Giuseppe Lattes, cui scrisse il 25 giugno 1867. Proponeva, inoltre, una riunione preliminare che mostrasse la bontà e l’ortodossia delle loro intenzioni e calmasse gli ingiustificati timori sorti intorno al progetto. A tale fine elaborò «un programma meno esplicito», che rassicurasse sia coloro che erano favorevoli al Concilio e alla sua opera di restaurazione del culto, sia i più timorosi di un’opera demolitrice della Legge tradizionale. Tale programma, come testimonia una lettera inviata a David Almagià il 13 settembre 1867, ben poco lasciava trasparire dei reali obiettivi del Concilio.
Il sinodo rabbinico, tuttavia, non ebbe mai luogo. Con una circolare del 15 gennaio 1868 David Levi, ex-Presidente del Congresso di Firenze, informava le comunità del mancato sostegno delle stesse alle deliberazioni sul Collegio rabbinico di Padova e sul Concilio rabbinico. Nel febbraio del 1868 Terracini rispose a Levi informandolo di dover, in accordo con la comunità di Asti da lui rappresentata, ritirare l’adesione ed il sostegno finanziario a tutte le deliberazioni fiorentine. Il rabbino astigiano non riuscì nonostante i propri sforzi a convincere i suoi colleghi ad adottare una prospettiva unitaria che superasse i dissidi interni, a scuotersi dall’immobilismo cui si erano adagiati. Ben lungi dal conservare la purezza della Legge, immutabile in ogni suo singolo precetto, per Terracini il Rabbinato italiano non si rendeva conto della perdita di attrattiva che la religione dei padri subiva agli occhi dei fedeli. Un Concilio avrebbe portato i rabbini a discutere e a confrontarsi, ad uscire dal proprio isolamento. L’interesse della posizione di Terracini risiede nell’essersi posto a metà tra i due opposti. Egli non voleva né “riformare” il culto demolendone le fondamenta, né conservarlo immutato nella sua forma ormai inadeguata al mutato contesto sociale. La sua posizione di compromesso rivelava un profondo dinamismo intellettuale, che, tuttavia, non trovò sufficiente appoggio.