24 settembre 1865. Lettera: le ragioni in favore di un Concilio rabbinico
Percorso: Rabbino Davide Terracini
Dati:
mittente: Davide Terracini
destinatario: Rabbino Maggiore Giuseppe Raffael Levi (Vercelli)
oggetto: Terracini espone le ragioni a favore di un Concilio rabbinico
La minuta è destinata al Rabbino Maggiore di Vercelli, Giuseppe Raffael Levi; reca la data 24 settembre 1865 ed è vergata sul consueto piccolo quaderno.
Terracini torna più diffusamente sul tema a lui caro del Concilio rabbinico come primo passo necessario per porre rimedio al deplorevole «stato religioso attuale». Desta interesse una rivelazione da parte del rabbino, che sembra non ricorrere altrove presumibilmente per evitare di fornire ulteriori ragioni di critica ai suoi oppositori. Terracini, infatti, ammette di nutrire il forte timore che il contrasto tra la «scuola antica» e la «moderna» – sulla liceità o meno di modifiche da introdurre nel culto – giunga ad un punto di non ritorno, divenendo insanabile. Parla di una «lotta indefinita e indefinibile, la quale non conseguendo uno scioglimento avrebbe fatali conseguenze, facili più ad idearsi, che a descriversi». Allude qui ad uno scisma, le cui conseguenze sarebbero state catastrofiche secondo la gran parte dei rabbini italiani. Per sanare questo dissidio occorre convocare un Concilio in cui il Rabbinato ponga fine all’isolamento interno cui si era spontaneamente relegato. Gli oppositori di Terracini, al contrario, temevano che proprio un concilio avrebbe condotto a spaccature insanabili; il ricordo dei tre Concili tedeschi del 1844-1846, che non avevano ricomposto lo scisma riformato, era ancora vivido. Terracini confessa, inoltre, di aver taciuto il timore citato al Congresso di Ferrara, affermando che i rabbini italiani, qualora si fossero riuniti, sarebbero certamente giunti ad un accordo, nonostante non ne fosse affatto persuaso. Ad ogni buon conto, l’assemblea congressuale dichiarò incompetenza, grazie anche all’opposizione di uno dei tre rabbini presenti, Leone Reggio di Ivrea, di cui l’autore non manca di render nota l’«improntitudine», peraltro non senza una punta d’astio.
Terracini passa poi a delineare gli obiettivi che il Concilio deve porsi:
- condanna delle violazioni alla Legge;
- definizione delle rispettive competenze del Concilio e del singolo rabbino;
- «depurare» il rito, riportandolo «alla Legge tradizionale, ed allo spirito che informa la Misnà ed il Talmud».
Riguardo al primo punto, il Rabbino Maggiore di Asti sottolinea in particolare le prescrizioni concernenti la celebrazione del Sabato e quelle alimentari, come «punti essenziali che costituiscono la fisonomia Israelitica». Trasgredire questi principi fondamentali rende «la nostra dispersa famiglia non solo confusa, ma fusa con le altre». Per Terracini indifferentismo e assimilazione sono due volti del medesimo problema: un ebreo, che non onora il Sabato e che non osserva le prescrizioni alimentari, non può definirsi tale. Il rabbino astigiano è ben consapevole che tale condanna non è il motivo principale per cui il Concilio è promosso dai suoi fautori, ma il suo scopo è anche quello di rassicurare i suoi oppositori della propria ortodossia.
Il secondo punto è in certa misura ovvio, ma tocca altresì un altro tema caro a Terracini. Il Concilio deve distinguere con esattezza le sfere di competenza propria e dei singoli rabbini. Il duplice intento è, da un lato, quello di scongiurare l’introduzione di innovazioni nel culto da parte di singoli rabbini, per quanto dotti ed autorevoli, come era avvenuto pochi mesi prima per mano del Rabbino Maggiore Olper; dall’altro, occorre limitare l’arbitrio dei giovani rabbini, che decidono di questioni rituali in totale autonomia senza consultarsi preliminarmente con altri colleghi dotati di maggiore esperienza. Agli occhi di Terracini questa deriva individualistica era la causa prima del decadimento dell’autorità rabbinica agli occhi dei laici.
Infine, giungiamo al punto di maggior controversia: il Concilio avrebbe dovuto intervenire sul complesso di norme rituali, eliminando le prescrizioni accessorie, che appesantivano la religione dei padri, rendendola inadatta ai tempi e alle necessità delle comunità emancipate. Tuttavia, a detta di Terracini, come di Mortara, non di riforma si trattava, ma di un ritorno «alla Legge tradizionale, ed allo Spirito che informa la Misnà ed il Talmud»; spirito, che si stava immiserendo «sotto l’incubo della miscredenza e della indifferenza». L’immobilismo da parte rabbinica avrebbe portato la legge tradizionale a «soccombere sotto il peso delle infinite intrusioni delle scuole Francesi e Polacche del Medio Evo». Dunque, Terracini non mirava ad alterare in alcun modo la Legge orale, tramandata dalla Mishnà e dal Talmud, ma ad eliminare le aggiunte al rito di epoca medievale e di derivazione qabbalistica. Ciononostante, tali misure non bastano a porre un freno al dilagante abbandono della religione. Le amministrazioni comunitarie devono promuovere l’istruzione religiosa tra i più piccoli, istituendo asili infantili e scuole elementari, in cui siano insegnate non solo materie religiose, ma anche le «volgari» (come la lingua e la letteratura italiane), così da prepararli all’ingresso nelle scuole pubbliche. Le prediche dal pulpito non riporteranno indietro coloro che si sono smarriti.