Sono Evelina Mosseri, nata a Il Cairo in Egitto nel 1950 da una famiglia medio borghese. Mio padre era un commerciante di abbigliamento mentre mia madre, insieme alla servitù, si occupava della conduzione della famiglia, ben 10 figli nati tra il 1935 e il 1953 di cui 4 maschi e 6 femmine. Io sono la penultima.
Mio padre e mia madre erano ben inseriti nel contesto sociale, e nei weekend frequentavano gli amici con i quali andavano nei famosi caffè, all’Opera come si usava allora.
Nel 1952 Nagib fu, insieme a Nasser, fra i promotori del colpo di stato che costrinse il re Faruq all’abdicazione. Nagib fu poi destituito dallo stesso Nasser per divergenze politiche.
Nasser nazionalizzò, nel 1956, il Canale di Suez di proprietà franco britannica: la nazionalizzazione forní alla Francia e al Regno Unito una giustificazione per un’operazione militare a cui si unì anche Israele in quanto era stato proibito il traffico attraverso il Canale di Suez.
Lo scontro tra Israele ed Egitto si concluse con una rapida conquista del Sinai il 29 ottobre 1956 e il 31 Ottobre le truppe anglo francesi bombardarono Il Cairo.
Il conflitto venne interrotto dall’intervento congiunto sovietico statunitense che impose il cessate il fuoco.
Nel 1957 Nasser scacciò gli ebrei dall’Egitto.
Ecco i miei ricordi di bambina.
Le sere a casa diventavano sempre più difficili, di tensione, di paura.
Ricordo che mio padre oscurava le finestre con coperte e giornali.
Al suono delle sirene dovevamo stare zitti e nasconderci sotto il letto o il tavolo.
Non piangevamo e poi ci chiedevamo se gli aerei di Israele sapessero che eravamo ebrei e che non avrebbero dovuto bombardarci.
Un giorno la polizia andò in negozio dicendo a mio padre che doveva lasciare l’Egitto entro tre giorni, lasciando ogni cosa, altrimenti sarebbe stato arrestato.
Mio padre aveva fatto fare dal “naggar”, un falegname, quattro grandi bauli da riempire di abiti e oggetti di ogni genere per il viaggio verso l’Italia.
Così è cominciato il nostro viaggio, non è stato facile lasciare i parenti, la casa, la quotidianità. Eravamo preoccupati, tristi e soprattutto nessuno parlava l’italiano.
Arrivammo in Italia a Venezia il 3 aprile del 1957 sulla nave Esperia, e da lì ci dirigemmo verso Livorno; viaggiammo in treno osservati dagli altri con stupore.
A Livorno con l’aiuto della Comunità Ebraica e del Comune abbiamo cominciato una nuova vita.
I miei fratelli più grandi dopo poche lezioni hanno cominciato a parlare l’italiano e trovato lavoro. Noi piccoli andavamo alla scuola ebraica, dove c’erano la merenda e il pranzo.
Non abbiamo mai sentito i nostri genitori lamentarsi né rimpiangere la loro precedente situazione. Non hanno mai parlato bene l’italiano anche dopo tanti anni.
I miei genitori hanno ricominciato la loro vita all’età di 47 anni, in un paese straniero, senza conoscere la lingua e con figli ancora piccoli, l’ultimo della famiglia aveva solo tre anni.
Le tradizioni venivano seguite come al Cairo. Lo Shabbat si festeggiava nel salone tutti intorno al grande tavolo, e dopo il kiddush nostro padre ci dava la berachà una volta disposti in fila per ordine di età. La mamma diceva di aver preparato tutto e le mie sorelle più grandi portavano in tavola e servivano.
Il menù per lo Shabbath e le feste era sempre lo stesso: un ottimo baccalà, riso, pollo e patate arrosto.
Nei giorni feriali mangiavamo in cucina in due turni, prima noi piccoli scolari, poi i grandi che rientravano dal lavoro.
Un bel ricordo riaffiora: il seder in famiglia tutti insieme, una lunga tavola, Papà z.l. a capotavola ci abbracciava con lo sguardo uno per uno, fiero. Mamma al suo fianco sedeva sul bordo della sedia come sempre. Papà leggeva l’haggadà anche in arabo e le preghiere sembravano non finire mai, si leggeva e si commentava.
Il vassoio passava sulle nostre teste, ci contendevamo la lettura dei brani dei quattro figli: il saggio, il cattivo, il semplice e colui che non sapeva formulare le domande.
Un altro ricordo è il dialogo tra i commensali, uno di noi si fingeva un viaggiatore che con un tovagliolo contenente delle azzime veniva interrogato in arabo:
“Da dove vieni?”
“Dall’Egitto.”
“Dove vai?”
“In Israele.”
“Vengo con te.”
“Su andiamo insieme.”
Questo veniva ripetuto per tutti i commensali, poi c’era la ricerca dell’afikomen.
Veniva preparato il calice per Elihau Hannavì, la birkat hamazon e, lette le ultime pagine, noi piccoli, stanchi, ci addormentavamo sul divano con l’augurio di rivederci l’anno successivo a Gerusalemme.